Simona Bartolena
“Lasciate ogni superficialità voi che entrate”
“Lasciate ogni superficialità voi che entrate”
“Lasciate ogni superficialità voi che entrate”: è di dantesca memoria il monito che accoglie gli ospiti in visita allo studio di Afran. Una frase rivisitata che dice tutto e che acquista un valore particolare soprattutto quando all’invito segue uno sguardo alle opere che riempiono il piccolo atelier.
A rapire subito l’attenzione sono, non potrebbe essere altrimenti, i noti busti realizzati con il denim. Volti imponenti, dall’aura classica subito smentita dalla scelta del materiale. Paiono non appartenere a uno spazio-tempo: stanno lì, immobili, assoluti, sospesi in una strana e silenziosa eternità. Sono presenze attraenti e al contempo quasi spaventose, capaci di far riemergere visioni ancestrali e iconografie tradizionali che appartengono all’immaginario collettivo. Questi busti sono talmente appaganti esteticamente che recano in sé un rischio non da poco: inducono a lasciarsi sedurre dalla loro bellezza e dal loro virtuosismo formale senza voler andare oltre. E, invece, il senso più profondo di questi oggetti sta proprio oltre la loro bellezza. Per coglierlo a pieno è bene meditare su quel monito e mettere da parte la superficialità; porsi delle domande; notare il filo sottile ma resistente che collega tutte le opere di questo artista sorprendente, sincero e ancora capace di emozionarsi, ancora convinto che l’arte forse può cambiare il mondo, o quantomeno migliorarlo un po’. L’anno scorso Afran ha rappresentato il suo paese di origine, il Camerun, alla Biennale d’arte di Venezia. Prima di questo importantissimo traguardo non gli sono mancati momenti di visibilità, successi, riconoscimenti. Ce ne sarebbe abbastanza per montarsi la testa e, soprattutto, ce ne sarebbe abbastanza per crogiolarsi nella tipologia di opera che lo ha reso riconoscibile e noto. Afran potrebbe fare i suoi busti, lasciarli in pasto al pubblico e all’arena dei social, raccogliere i copiosi like e vivere tranquillo. Ma le persone come Afran non sono nate per questo né hanno scelto l’espressione artistica per trovare il successo.
Non c’è opera di questo giovane e talentuoso artista che non porti traccia del suo pensiero: un pensiero solido, strutturato, intelligente. “Il mio intento è di raccontare le contraddizioni del nostro tempo”, afferma, “Di fatto il nostro mondo non è più scuro come quello medievale di Dante, il nostro è meraviglioso, tecnologico, iperconnesso; un mondo che ha potuto imparare dalle grandi guerre, che ha abbattuto il muro di Berlino, ma paradossalmente ci ritroviamo nel 2023 a scavare trincee nella maniera più rudimentale mentre contemporaneamente controlliamo le posizioni avversarie con dei droni”. La ricerca di Afran si concentra proprio sulle grandi contraddizioni di questo nostro tempo, sulle questioni identitarie (assai complesse per un ragazzo camerunense trapiantato in Italia) che caratterizzano la società contemporanea e sull’insopportabile dilagare della necessità di apparire, che vede nell’esteriorità l’unico idolo. Va proprio in questa direzione la scelta della stoffa – del Denim in particolare, tessuto dal notevole valore simbolico, democratico e modernamente novecentesco –, per Afran “una sorta di grado zero”, un materiale nel quale ciascuno può “plasmare” la propria identità, costruendosi la propria immagine esteriore. Grazie alla professione di sarta della madre, Afran sente i tessuti come qualcosa di assai famigliare. Vivo è il ricordo del momento della prova di un abito nuovo, con quel guardarsi allo specchio che riempie di gioia. Il vestito diventa la metafora di questa corsa all’apparire, che si traduce in uno svuotamento sempre più preoccupante. Protagonisti, non a caso, sono tronfi imperatori con sontuosi mantelli, spaventosi dannati dalle espressioni tragiche, ma anche il mite e coraggioso David, simbolo di umiltà e integrità morale. Anche l’eroe biblico, tradizionalmente nudo, è invece plasmato nel jeans, pure lui figlio di questa società che si nasconde dietro a un panneggio, che finge di spogliarsi degli orpelli per ammantarsi di catene ben più pesanti, come un like sui social o il riscontro tra i followers. Non è un caso che all’interno di questi visionari busti di denim, l’artista nasconda oggetti pieni di significato, un tesoro celato dietro alle apparenze. Proprio questa riflessione sull’apparire e sulla crisi identitaria rende coerente la ricerca di Afran, capace tecnicamente e linguisticamente di variazioni costanti, in un’esplorazione che va dalla pittura alla scultura, dall’installazione al reimpiego di materiali di scarto. Il messaggio corre di opera in opera, affidandosi a mezzi espressivi differenti. Afran non urla; anche la sua provocazione è sottile, mai esaltata, mai compiaciuta. Non c’è la tentazione dell’autocelebrazione nei suoi lavori, piuttosto un’immediatezza e un’onestà a tratti disarmante. Sa di essere parte di un sistema, di dover essere presente sui social, di averne bisogno per il suo lavoro. Ma sa anche che, come diceva Bruno Munari, le “macchine” sono fatte per essere usate, non per farsi sovrastare. E dunque ecco il gioco, le sovrapposizioni, le contaminazioni culturali, le strizzatine d’occhio al pop, i riferimenti alla tradizione occidentale e alle radici africane, in un efficace crogiuolo che riflette la complessità del nostro tempo, imponendoci riflessioni tutt’altro che banali.
Pacchi Amazon che diventano cavalli di troia da accogliere in casa propria o vitelli d’oro da idolatrare, funghi allucinogeni coperti dai loghi delle più note piattaforme social, maschere tribali composte dalle medesime icone, statue classiche deturpate da un tentativo di decorazione “finito male”, sculture sacre coperte di elegantissimi pattern floreali… In un caleidoscopio di colori e materiali, Afran ci proietta in un mondo affascinante e attraente, che custodisce dietro alla sua piacevolezza un messaggio molto prezioso. Un messaggio su cui è bene riflettere.