Michele Tavola
Critico d’arte e specialista nell’ambito del Libro d’Artista, della grafica d’arte e dell’illustrazione libraria eseguita d’artisti.
Le maschere e i totem in tela jeans sono l’emblema, più di ogni altra opera, del percorso artistico e personale di Fancis Nathan Abiamba, meglio noto con il più semplice e immediato pseudonimo di Afran.
Le sculture che danno vita a questa serie trovano ispirazione e origine figurativa nelle radici dell’artista e nella cultura della sua terra, in maniera evidente e istintiva. Sono l’approdo più forte della ricerca identitaria di Afran: ricerca identitaria che è una costante della sua produzione, iniziata fin dagli anni della formazione in Camerun e continuata nel fondamentale periodo trascorso in Guinea Equatoriale. Allo stesso tempo, il singolare materiale scelto per creare sculture parla esplicitamente di una dimensione urbana, propria del villaggio globale e metabolizzata da un cittadino del mondo, figlia di un sentire moderno e potentemente attuale. E in qualche modo anche le forme, pur denunciando chiaramente la matrice etnica appena sottolineata, sembrano contaminarsi con gli stili proposti dalle mode dei giovani delle metropoli occidentali. Melting pot. Curiosa ma caparbiamente ricercata mescolanza di tradizioni antiche ed esperienze dirette di vita. Sorprendente sintesi tra archetipi ancestrali e icone punk.
Afran è nato, è cresciuto e ha ricevuto il suo battesimo artistico in Africa centrale. Da qualche anno vive nel nord della Lombardia, a Barzio, paesino della Valsassina incastonato come una perla tra il gruppo delle Grigne e i Piani di Bobbio. La sua biografia parla di viaggi non previsti, percorsi aperti, scambi culturali profondi, contaminazione artistica. E imprevedibili approdi. La sua arte è street, è immediata e volutamente di facile comprensione. Rigetta intellettualismi artefatti e colpisce lo spettatore come un pugno in pieno viso. Vuole parlare alla gente, vuole farsi capire dalla gente. Non è un caso che nonostante la giovane età abbia già ricevuto numerose importanti commissioni pubbliche per realizzare murales in Africa e in Europa. Eppure tutto il suo lavoro è concettualmente teso alla salvaguardia dell’identità culturale, senza dimenticare mai le radici, le origini, il punto preciso dal quale il viaggio è iniziato.
La vita e l’arte di Afran sono incarnazione e testimonianza della possibilità di aprirsi e di condividere senza perdere se stessi. Mutare continuamente e continuamente mettersi alla prova preservando la propria diversità. Diversità sinonimo di ricchezza. E non è un caso nemmeno il fatto che oggi Afran affianchi l’attività artistica con quella educativa, in un centro di accoglienza per ragazzi difficili ai quali insegna a comunicare e a esprimersi con i linguaggi dell’arte.
Tra maggio e giugno 2013 si è gentilmente prestato ad esporre alla Torre Viscontea di Lecco insieme ai ragazzi del Liceo Artistico Medardo Rosso, accettando la sfida lanciata dai ragazzi: ovvero riflettere e lavorare insieme sul tema Volti nuovi, cose nuove, a caccia della nuova fisionomia della città e dei suoi (vecchi e nuovi) abitanti. In questa occasione, della quale Afran ha saputo cogliere la valenza simbolica ancora prima che artistica, ha scelto in maniera logica e, se vogliamo, inevitabile, di presentare le sue sculture in jeans. In stretto contatto con i giovani studenti, ancora una volta ha saputo coniugare il proprio impegno di artista con quello sociale. Afran stesso, con parole che non hanno bisogno di alcun commento, ha descritto così il proprio intervento: “Da diversi anni sto riflettendo sul concetto odierno di identità. Da noi si dice: «Per sapere dove andare bisogna capire da dove si viene». Io aggiungo: per capire dove andare, bisogna sì capire da dove si viene ma anche sapere dove ci troviamo in un determinato momento. Tortuoso e complesso risulta definire dove ci troviamo, nel contesto della società dei consumi e dei social network che abbattono le barriere spaziotemporali e partoriscono identità fluide sotto l’ala protettrice della globalizzazione. Il jeans è uno dei simbolidi questa globalità e la mia opere Blue Jeans è una tra le infinite visioni possibili che cerca di combinare la tutela del patrimonio culturale con le nuove esigenze del mondo contemporaneo; un incontro tra passato e presente; una nota malinconica a testimonianza della sofferenza nel cambiamento; il lamento dei giovani d’oggi, in balia di una battaglia tra tradizione e modernità che spesso li porta a rinnegare la propria cultura o immergersi inconsapevolmente in un’altra, in una continua ed affannosa metamorfosi”.
Michele Tavola, 2013
Vestirsi è darsi forma, trasformasi, travestirsi, è gioco delle maschere: è abitare il corpo indossando un altro corpo, un corpo di stoffa e con esso abitare il mondo. Struttura l’identità e le appartenenze: dice chi siamo e dove siamo. È costruzione di habitus, di tecniche e conoscenze interiorizzate che modulano l’esistenza. È la modalità in cui il corpo prende ad essere. È corpo vestito in relazione con l’ambiente, la società, il cosmo, espressione corporea dell’identità sociale. E lo fa in modo tanto più pervasivo perché, mentre tocca quanto di più apotropaico c’è nell’essere umano, lo fa con leggerezza.
È al corpo vestito, al corpo come bodyscape, che si riferiscono le opere, presenti nella mostra dal titolo Blues Jeans, dell’artista camerunese, Afran, che attualmente vive in Italia. E lo fa assumendo anzitutto il denim di cui il jeans è fatto come materiale di costruzione e di senso perché i materiali e i vestiti sono la pelle della cultura, dei suoi corpi, degli arredi, sono portatori di messaggi simbolici e testi di costruzione e di ibridazione delle identità.
E dunque chi è Io? è una domanda che nelle opere di Afran si interroga sulla perdita di identità di chi viene da altre culture. E lo fa utilizzando il denim di cui è fatto il jeans per il suo essere un prodotto-feticcio, una determinazione totemica penetrata nell’immaginario, una sorta lingua universale, intraducibile in qualsiasi altro idioma, per strutturare opere che rimandano, nella fattura e nei significati simbolici, all’africanità e alla sua arte, declinando nel mondo globalizzato e nel modo occidentale di essere quello il “ritorno del rimosso”.
I jeans, infatti, appartengono ora ai prodotti-segni che hanno invaso lo spazio mondiale, di una globalizzazione che si è infiltrata in ogni angolo della terra, di una società uniformata nel sociale, nella professione, nel sesso, così da essere diventati una sorta di grado-zero dell’abito. Per questo nelle opere di Afran non rivestono solo la grande scultura-testa o le maschere ma penetrano nel loro interno, colonizzano la loro anima con il denim. Non coprono solo il vuoto che abita il soggetto: non sono solo puro involucro che non contiene, esteriorità che copre l’immagine, che si iscrive sulla superficie, ma radicale perdita di sé.
Anche la scelta di Afran di utilizzare jeans donati, che hanno un’anima in quanto incorporano le storie dei corpi che li hanno abitati, e materiali poveri, usati e scartati, non solo rimanda a un modo di operare largamente presente in Africa e nei paesi poveri, ma è oggi una delle forme più sofisticate e attuali della ricerca espressiva nell’arte, nel design, nell’architettura. E, ugualmente, il praticare una sorta di bricolage, in un’estetica del montaggio e del frammento, tagliando i jeans per ricavare il materiale utile per costruire le sue opere come se scavasse e incidesse nella materia e nella carne delle cose, dei volti, delle maschere, dei corpi, rimanda, oltre che all’Africa, a un modo di operare che attraversa l’arte delle avanguardie e di tutto il Novecento e ritorna ora con altre valenze per coniugare estetica e etica.
Per questo Afran privilegia cinture, tasche, passanti, cerniere, bottoni e utilizza le fibbie come fossero metalli preziosi o pietre di luce, mai con valenza decorativa, dando loro un rilievo privilegiato come se lì, in quel punto, fosse presente qualcosa di misterioso, un potere e certo una fascinazione. E nelle maschere utilizza le linguette e coperchi delle lattine. Riuso, certo, ma anche fascinazione verso la pelle lucente e liscia di un materiale, un mutamento dello sguardo che vi rintraccia trame, forme e nuovi significati e possibilità. È una nuova estetica, ampiamente presente nel mondo dell’arte e nell’invenzione caratteristica dei mondi poveri e dei paesi in via di sviluppo, capace di fare i conti non solo con le proporzioni auree e con il bello ideale, ma anche con la spazzatura, che sa vedere il bello al di là della merce. O sa vedere nelle linguette una soglia, che immette nella profondità, al di là della superficie, porta di accesso a un interno.
Se dunque nel manichino dell’uomo contemporaneo Afran mostra un corpo dissolto negli intrecci degli appendiabiti perché è con la moda che struttura le sue apparizioni sulla scena del mondo, il rimosso della propria identità africana si avverte nella forte presenza nella scultura delle forme plastiche dell’arte camerunese della cultura Fang di grande impatto visivo e figure dotate di un’immediata drammaticità e nella scelta di costruire maschere-casco da portare sul volto e machere-feticcio, rese tali da ciò che è stato immesso al loro interno.
Nella scultura Afran struttura e racconta con la stoffa la pena del cuore, il dolore e il pianto silenzioso della perdita di identità, e utilizza la maschera proprio in quanto è l’espressione di un codice mitico-etico-religioso, elemento portatore della cultura nel suo complesso, per instaurare un dialogo con la contemporaneità attraverso le cose e i materiali simbolo che le appartengono.
Avviene così che le opere di Afran dedicate ai Blues Jeans, allargando l’orizzonte al rimosso della storia, aprono la strada a una narrazione decontestualizzata e dal margine e a nuovi linguaggi e a sperimentazioni di percorsi alternativi. Aprono all’ascolto delle voci degli altri mondi, anche quelli che la globalizzazione emargina. Ma non parlano solo dell’identità africana ma anche di noi, delle maschere con cui costruiamo identificazioni che coprono il vuoto di identità. E comportano il farsi incerto e mutante della stessa nostra lingua, storia, identità.
Così, quello che è anche stato chiamato “il ritorno dell’indigeno” ci obbliga a far saltare i confini tra la nostra e la loro storia. Ci ricordano e ci obbligano a vedere come la loro storia sia alla base del nostro mondo, ieri come oggi, come ci ha insegnato a fare la letteratura postcoloniale, che ha riscritto e cambiato l’immagine occidentale della storia e della nostra stessa modernità. Sono un modo anche per ritrovare la natura migrante e polimorfa degli stessi jeans e il loro far parte di una cultura antropologica, musicale e popolare che non certo solo nostra e che va dal blues al rock. E quella altrettanto migrante del denim che è un tessuto di sargia importato in America dall’Europa e tinto con l’indaco, una tela di cotone robusto e resistente, a trama semplice, che ha sostituito l’originaria tela da tende e da carro proveniente da Genova, da cui viene il nome jean, trascrizione fonetica del termine italo-inglese genoese. Anche il termine inglese denim è incerto e controverso, è forse una contrazione del francese “serge de Nîmes”, oppure il nome un tessuto della Linguadoca o di uno della Provenza, che all’inizio del XIX secolo veniva usato per fabbricare vestiti per minatori, operai e schiavi. E per quanto riguarda il blu è un blu slavato, stinto perché all’origine il cotone era troppo pensante per assorbire tutta la materia colorante, così il colore appariva come una materia viva che si modificava contemporaneamente a chi lo indossava. Un colore che ci appare ora espressionista e metropolitano. Per questo il blues jeans può essere espressione di un’identità ibrida, diasporica che si riconosce nel “mutevole medesimo”, un sé che è l’uno e l’altro, uno e doppio.
E dunque se le identità sono sempre una costruzione, non sono mai fisse e stabili, ma composte e decentrate e in continua ridefinizione di se stesse, sono identità complesse che vivono nel “terzo spazio” transculturale, di cui ci ha parlato Homi Bhabha, uno spazio liminoide dove l’ambiguità della pluriappartenenza, l’oscillazione provocata dal possedere più punti di vista, crea un’identità di frontiera e uno sguardo dislocato. Nell’interrogazione e nella ricerca di quello che l’identità ci dice e occlude, diventiamo più incerti su dove finisce e dove inizia. Ci pone di fronte all’alterità che tutti siamo attraverso lo sguardo dell’altro. E ci apre ai mutamenti e ai meticciamenti in cui si elaborano nuovi linguaggi e sistemi percettivi e inedite sensorialità il cui dato emergente è quello esistenziale che getta inaspettati ponti tra comportamento sciamanico, feticismo e gesto artistico, per ritagliarsi un’autenticità che non sia solo illusoria .
Eleonora Fiorani, 2012