Matteo Galbiati
Questa volta non iniziamo a parlare dell’opera, della ricerca o dell’artista che l’esegue. Iniziamo da quella cosa che subito notiamo, che catalizza immediatamente l’attenzione prima ancora delle forme e degli oggetti che descrive. Partiamo dal materiale che Afran utilizza, tanto comune quanto inusuale per un’opera d’arte: il denim o il blue-jeans.
Questa stoffa pesante e tipicamente blu non ha bisogno di grandi presentazioni. Fa parte della nostra quotidianità. Chiunque ha indossato e possiede almeno un paio di pantaloni blue-jeans o un qualcosa fatto con questo tessuto nel proprio guardaroba. Ebbene tale materiale è indiscutibilmente diventato un esempio di prodotto globale ante litteram. Fin dalla sua antica commercializzazione il tessuto nasce come variante del fustagno in Europa attorno al XV secolo, in due centri precisi la città francese di Nîmes (per questo detto tela de Nîmes da cui il termine denim) e la piemontese Chieri che poi lo commercializzava tramite le rotte mercantili in partenza dal porto di Genova, dove questo tessuto blu era usato anche come materiale per i sacchi delle vele (da cui blu di Genova che in francese diventa blue de Gênes e in inglese trasposto in blue jeans). In California prese la forma che conosciamo nel 1873, grazie all’intuito di due commercianti – Levi Strauss e Davis – che sfuttarono la resistenza del tessuto per confezionare comodi e robusti pantaloni per i cercatori d’oro che al tempo invadevano quella regione in cerca di fortuna. Da allora è un capo costantemente rinnovato nello sviluppo e nell’interpretazione della moda e ha continuato a far parte della vita quotidiana del mondo occidentale e non solo. Un successo senza pari, una storia che continua tutt’oggi senza perdere la sua forza. A volte uno status-symbol, un oggetto con cui sottolineare un modo di essere ed apparire o rivendicare un’appartenenza. Un simbolo, un modo per costruire la propria immagine, un’icona (dal greco εἰκόνα, immagine!).
Questa la storia – forse già nota – di un materiale comune ma che il giovane artista camerunense Afran ha eletto a sostanza privilegiata per descrivere le sue maschere-sculture e le sue sculture a parete (riduttivo definirle banalmente come quadri).
Perché proprio il materiale diviene cosi tanto pregno di senso per questo artista? Per il valore iconico che il tessuto denim ha assunto in seno alla nostra società globalizzata, economicamente forte (smentita in realtà dalla situazione attuale!) che viene vista come modello – globale appunto – di sistema cui aspirare. L’Occidente – con le sue icone, prevalentemente di consumo più che non culturali – è diventato la meta, l’Eldorado felice e speranzoso per uomini dalle provenienze ed origini diverse. L’epicentro di ogni loro speranzosa aspettativa.
Ma cosa abbiamo realmente offerto e cosa offriamo? Un sistema che, dopo cinquant’anni, sta sgretolandosi e involvendo su sé stesso. Un sistema che si è auto-fagocitato. Una società che è intollerante, accoglie l’altro ma lo tiene al contempo distante e non si sforza di capirlo se non per un certo gusto etnico che queste culture ci portano.
Qui riprendiamo un altro concetto caro ad Afran: il valore dell’attributo etnico. Noi abusiamo e fraintendiamo questo termine che ormai – nell’arredo, nella moda, nella decorazione, nell’oggettistica, … – si associa ad un maldestro gusto per tutto quello che consideriamo esotico. Osteggiamo il termine etnico, se questo viene inteso secondo questo riduttivo stereotipo, oggi davvero troppo usurato.
La pienezza del termine etnico invece va ricondotta alla parola etnia: è etnico, pertanto, l’insieme di caratteristiche che connotano specificatamente la cultura, la storia, le tradizione di un gruppo determinato e circoscritto di uomini. Un’etnia appunto. Etnie che arricchiscono e diversificano l’universo umano. Appianare o sottrarsi da questa ricchezza è una triste perdita.
Afran ricorre quindi a soggetti etnici perché riconducibili ad un’etnia precisa: quella Fang del Camerun. La sua terra d’orgine. Ritroviamo maschere e visi rituali elaborati col jeans quale segno di un’irrevocabile e imprescindibile contaminazione – meglio dialogo – tra culture distanti. Afran allora parte intelligentemente da un tessuto, una scelta non casuale: l’abbigliamento, il vestito – il costume – sono il nostro primo mezzo per dichiararci al mondo. Possiamo considerare il vestirsi (inteso come vestire sé) quale lo strumento primo per rivelare un’appartenenza e un modo di essere. Almeno lo è sempre stato. I costumi descrivevano la peculiarità di un popolo, tanto che parlare di costumi ha assunto nel tempo un valore molto più ampio rispetto al solo capo di abbigliamento, estendendosi ad ogni aspetto caratterizzante l’etnia appunto. A questo punto troviamo legate tutte le tematiche tra loro.
Afran veste e traveste le sue opere con il jeans: unisce un pezzo di storia artistico-culturale dell’Africa con un simbolo Occidentale, non materiale inerte, ma uno che ha indossato le storie vissute dalla gente.
Se l’abbigliamento descrive la nostra maschera, la nostra pelle con cui ci muoviamo attraverso il mondo e ci rapportiamo all’altro, la maschera simboleggia anche il desiderio di apparire diversamente da come si è. La maschera stravolge l’individuo e lo deforma, privandolo dell’anima profonda del suo stesso essere individuo peculiare. Maschera, vestito sono un filtro.
Il giovane artista ricorre poi a maschere rituali che si caricano di ulteriore significato nel divenire mezzo per il compimento di un rito. In questo senso, procedendo per livelli successivi di coerenza, Afran non si è limitato a proporre le opere allestite nello spazio della galleria, ma ha voluto sottolineare la potenza del suo messaggio proponendo una performance in cui i partecipanti hanno indossato (vestito e quindi usato) le sue maschere di jeans abbigliate. La performance Ngòàn ‘ntàngàn ci riporta ad un rito Fang: un ballo, una danza, una sequenza di gestualità precise che vogliono estrapolare il messaggio del rito tribale simbolico e ridare un’esperienza comunicativa precisa. Il tema resta sociale: Afran, guardando alle sue origini, ritrova la possibilità di raccontare in modo diretto, perché già patrimonio della sua cultura, quanto il tentativo di assimilarsi all’altro – calzando una maschera o vestendo altri panni – a volte, se non fatto con consapevolezza ma con spasmodico e cieco desiderio di appartenenza, trasformi l’individuo in un mostro goffo. Un nuovo rito di iniziazione per ritrovare ancora consapevolezza come questione di identità.
Afran ibrida le identità e definisce la costruzione di corpi nuovi che comunque lascia evidenziati nel loro essere e restare tra-vestiti. Bloccati, in altro senso, in mezzo ai vestiti, che, da costumi o desiderio di nuova identità, diventano costrizioni, non essendo integralmente patrimonio di chi li veste perché cercati e acquisiti con forza e voracità.
Interessante e provocatoria opera è Scheletro di niente: un lavoro ricavato dall’assemblaggio e dal riuso in altra veste delle grucce appendiabiti. Nel risultato sembra quasi un fossile, un frammento di uno scheletro come lo stesso titolo dichiara. Pare uno scherzo, un gioco. In realtà anche questo lavoro, nella sua semplicità costruttiva, ricuce tutto il senso della riflessione dell’artista. Le grucce vuote si accumulano una sull’altra stratificate – lasciando intuire un tempo trascorso – e l’assenza dell’abito, che avrebbero dovuto sostenere, lascia bene intendere quanto effimere siano le mode e i gusti consumistici. La moda passa veloce, il gusto conformato passa veloce… Le tradizioni devono sopravvivere altrimenti delle identità singole non resta nulla. Uno scheletro o un fossile – forse – come flebile traccia.
Non si deve commettere l’errore, però, di intendere il messaggio, che l’impegnata ricerca di Afran suggerisce, come se fosse a senso unico: egli si rivolge con queste opere e con queste azioni tanto agli africani quanto agli occidentali. Non è un appunto unilaterale quello di cui parla attraverso la sua arte – ricordiamo che è anche un eccellente street artist – ma riporta l’attenzione sulla consapevolezza e sul rispetto della propria individualità: tanto con le maschere e la ritualità africana dei Fang tra Camerun e Guinea, quanto con il jeans della moda occidentale. Ogni cosa viene intelligentemente e misuratamente fusa a farsi simbolo sì di una libertà delle proprie scelte, quanto di una libertà che si fondi sulla consapevolezza e il rispetto delle diverse culture, arginando quella nefasta azione erosiva di una globalizzazione che tutto unisce e avvicina rapidamente, ma che pure uniforma o, peggio, azzera.
Afran ci dice di non far abdicare la nostra identità, di non perderla per acquisirne una nuova che, di fatto, non ci apparterrà mai fino in fondo, affondando altrove le nostre radici. Afran non lo fa in modo sterile o moralistico. Lo fa con la consapevolezza di chi ha vissuto questo percorso che, oggi, lo ha portato a vivere in Italia, in un paese che non suo è diventato suo.
Il messaggio della mostra è chiaro: Afran cerca di darci una traccia da seguire per non essere rinunciatari su un patrimonio culturale (ed etnico!) da preservare e tutelare, senza trascurare l’appartenenza al proprio tempo che impone nuove esigenze e dinamiche. L’incontro rimane quello tra un passato e un presente di volta in volta sempre più contemporaneo che debba saper coniugare la specificità di questi due poli opposti. Senza temere di farsi testimonianza tragicamente malinconica di una perdita, eventuale risultato di un cambiamento soverchiante ed irreversibile.
C’è un’opera particolare di Afran: una tela di jeans al cui centro, quasi risucchiato da un vortice, s’intravedono gli ultimi lineamenti di un volto. Sparizione di un’individualità peculiare annientata dal consumismo e dalla globalizzazione uniformante oppure riappropriazione di sé nella lotta contro un sistema che tutto assorbe? Lasciamo pure aperto l’interrogativo di questo lavoro che più di altri ponendo l’attenzione sul problema della salvaguardia dell’identità. In modo facile e immediato. Resta in tensione come quest’opera. Anche a questo serve l’arte, a porre degli interrogativi, perché posta la domanda sia chiara la consapevolezza della risposta che ciascuno potrà o vorrà darsi. A prescindere che sia Fang, africano, italiano o europeo.
La scelta della propria identità riguarda ciascuno di noi. La scelta di come s-vestirsi o tra-vestirsi rimane vincolato ai desideri e alle mire di ciascuno. Purché non ci si rimetta qualcosa di veramente prezioso che è la ricchezza delle nostre culture.
Matteo Galbiati, giugno-settembre 2012