Daniela Rosi
Outsider Art curator e docente all’Accademia di Belle Arti di Verona.
Dopo quanto espresso da padre Giuseppe Cavallini e dallo stesso Afran, credo ci sia poco da aggiungere di verbale sulle opere che verranno esposte nella mostra “L’abito è il monaco”, tanto più che spetta all’immagine qui parlare più che alle parole, avendo l’artista dato voce, con il suo fare, alla materia e al colore.
Posso senz’altro aggiungere che si tratta di un percorso espressivo interessante ed originale, particolarmente felice e maturo nelle produzioni scultoree. Le incursioni cromatiche ripropongono, come una firma, gli stilemi cubisti, eredità culturale di meticciato fra le avanguardie del Novecento europeo e i manufatti della tradizione africana. Opere come dialettica fra memoria delle origini e futuro aperto a nuove contaminazioni.
Questo lavoro ci interroga sul senso odierno dell’arte, in un’epoca di crisi economica, morale, politica.
Qual’è oggi il senso dell’Arte? Può l’Arte chiamarsi fuori da tutto ciò, o è chiamata ad assolvere un impegno civile?
Lascio al visitatore ogni ulteriore considerazione, poiché concordo con Borges, quando dice che un’opera d’arte sono tante opere quante sono le persone che la guardano.
Vorrei soffermarmi invece sul colore e sul materiale di cui queste opere son fatte, per indagarne “il viaggio” per terre e per mari. L’andare e il tornare. Il movimento incessante di ciò che è blu, come il cielo ed il mare.
Di fronte al colore blu, a nessuno verrebbe in mente l’Africa.
Eppure la mostra “L’abito è il monaco”, dominata dai toni del blu di Genova, è realizzata con opere di Afran, che è un artista di origine camerunese.
La fortuna del blu non è africana, ma è tarda anche in Europa, basti pensare che qui il suo uso inizia a diffondersi solo dal XII secolo. Fino ad allora poteva sporadicamente comparire, magari come sfondo in un dipinto, spesso confuso con il verde, ma non rientrava nei gusti e nelle usanze aristocratiche e tanto meno in quelle popolari. Saranno i re di Francia e le classi nobiliari a renderlo famoso. Si tratta di un colore denso, prezioso e costoso. E, come ogni altro colore, sarà nel tessuto dove offrirà le migliori sfumature di sé. Sete, velluti, damaschi, ma anche lino e cotone.
Come ci ricorda Michel Pastoureau, “tutta la storia dei colori può essere soltanto una storia sociale. È la società che fa il colore, che gli attribuisce una definizione e un significato, che costruisce i suoi codici e i suoi valori, che stabilisce i suoi utilizzi e l’ambito delle sue applicazioni”.
È certo che già nel 1500, un blu ottenuto dal guado (Isatis), una pianta tintoria di origine africana, veniva usato a Genova per dipingere una tela robusta, che serviva per realizzare vele per navi, teli per coprire le merci durante il trasporto, oltre che i vestiti per i marinai.
Il colore l’aveva portato indirettamente l’Africa e poi nel tessuto viaggiava per mari e per terra…
È sempre il guado a fornire l’ azzurro con il quale Piero della Francesca realizza l’abito della Madonna del Parto. Infatti, la religione, pur non attribuendo al blu una valenza liturgica, lo assume come attributo di purezza. E sappiamo che in Toscana e Liguria questa pianta meravigliosa veniva ampiamente coltivata.
Il blu, quindi, è vicino ai marinai, al popolo, ma anche al mondo celeste e ai grandi maestri e darà vita, oltre che alle vele e agli abiti, anche a diverse opere religiose di importanti artisti rinascimentali italiani ed europei. Si conosce perfino un curioso ciclo della Passione, composto di 14 teli dipinti, destinati all’Abbazia di San Nicolò del Boschetto in Val Polcevera, realizzati su tela tinta di guado. La stessa tela che servirà in futuro a realizzare i jeans. Si tratta di opere ponte fra un mondo colto e uno popolare, di difficile interpretazione, realizzate a partire dal 1530.
Col tempo questa tela verrà dipinta con l’indaco, sempre ottenuto da piante esotiche, di provenienza asiatica ed africana. Con l’inizio della febbre dell’oro nella Sierra Nevada, questo tessuto diverrà adatto alla realizzazione di pantaloni da lavoro pensati proprio per i cercatori d’oro. Sarà un giovane commerciante ambulante ebreo di origine austriaca, Levi Strauss, a produrre per primo questo abbigliamento.
Nonostante il termine jeans appaia per la prima volta nel 1920 negli Stati Uniti, questi pantaloni rimangono uguali a se stessi fin dal 1870. Cow boy, minatori, lavoratori di ogni genere faranno uso di questo capo comodo e resistente.
Dopo la seconda guerra mondiale, saranno i giovani contestatori ad indossarli, negli anni 60, come simbolo di protesta antiborghese e diverranno una icona indossati da miti del cinema come James Dean, del rock’n’roll come Elvis Presley e rimarranno inoltre indissolubilmente legati alla beat generation e alla cultura on the road.
Tuttavia anche per questo capo glorioso la fortuna cambia attorno agli anni Ottanta, tanto che diviene poco trendy indossarli nelle opulente società occidentali, proprio mentre diventano invece un nuovo simbolo di contestazione per i giovani dell’Est europeo e per i giovani dei paesi in via di sviluppo, che li adottano come espressione di dissenso nei confronti dei governi dei loro paesi e delle dittature, di “apertura verso l’Occidente, le sue libertà, le sue mode, i suoi codici i suoi sistemi di valore”. Insomma, seppur con alterne vicende, chi è che non ha posseduto o non possiede un paio di Jeans?
I Jeans sono di certo l’abbigliamento più indossato e più longevo nella storia della moda. Simbolo ormai della globalizzazione, dell’omologazione, così come il suo colore che oggi, a differenza del passato, risulta essere il colore preferito della maggior parte della popolazione adulta occidentale. Si tratta infatti di un colore definito “neutro”, pacificante, tranquillo, a differenza del rosso che è un colore che vibra, scuote, disturba, che impressiona e che, non a caso, risulta essere invece il colore preferito dalla maggioranza dei bambini.
Essendo tradizionalmente dipinto con l’indaco, il cotone grosso con cui sono fatti i jeans difficilmente assorbe in modo profondo il colore, che tende sempre a modificarsi, a non rimanere stabile nel tempo, modificandosi in contemporanea con chi lo indossa. Caratteristica questa che lo ha reso così famoso. I Jeans sono tutti uguali, ma cambiano sul corpo di ognuno, in modo soggettivo.
L’indumento diventa una seconda pelle, vive, invecchia, a volte si trasforma in un altro capo, o in un oggetto. Poi alla fine (troppo presto, oggi) viene scartato.
Molti di questi Jeans appartenuti ad altri arrivano nelle mani di Afran. Hanno una storia antica nel tessuto, un colore molto amato in Occidente, che ha le sue radici in Africa, e una storia più recente, quella di chi li ha indossati. Diventano tante tessere, come le tessere musive che si trovano nell’arte romana, in quella bizantina e che pure ci sono in terra africana. Tessere che l’artista dispone una accanto all’altra. Una sopra l’altra, in un intreccio complesso ed armonico che è una seconda tessitura. E alla fine, le forme che ne ottiene, sono forme dapprima piane, che via via si vanno alzando, metamorfizzando, antropomorfizzando. Le forme che raggiunge ci parlano di Africa, quelle sì. E infatti i riferimenti alle origini sono quelli che Afran, giustamente, sottolinea non essere appartenuti all’Arte nel senso occidentale, ma all’uso comune, al rito, alla religione della sua terra.
In apparenza Afran fa quello che le avanguardie europee del primo ‘900 hanno fatto con le espressioni plastiche africane, ma in realtà la sua operazione è diversa. Lui è africano e ribalta in soggetti artistici oggetti quotidiani e sacri della sua cultura d’origine, così come gli artisti occidentali contemporanei fanno con gli oggetti di uso comune della società dei consumi, fino alle estreme conseguenze del ready made.
Prima di questa mostra, al Museo africano erano esposti i giocattoli realizzati dai bambini africani. Da quei bambini che hanno meno cose di quelli dei paesi ricchi, ma per questo molta più fantasia e abilità manuale.
Realizzare cose con materiali di recupero, con il metodo del riciclo, è divenuta una pratica corrente nel mondo dell’arte. Di là per necessità, di qua per provocazione, per denuncia, per facile reperimento e abbattimento delle spese. Per moda.
La moda: la cosa che cambia.
Tutti uguali eppure tutti diversi. Tutti diversi ma tutti uguali.
Non credo che Afran, quando ha deciso di tagliare i Jeans per usarli come materiale per le sue opere, si sia basato in via prioritaria sulla storia del colore blu o sui percorsi delle stoffe. Le sue intenzioni le ha dichiarate. Ma l’artista ha questa dote: coglie ciò che le cose tengono nascosto.
Ha trovato nel blu, di cui tutti siamo vestiti, un assoluto cromatico, che viene da una pianta della sua terra; un tessuto nato per solcare i mari; un abito forgiato per chi andava a cercare fortuna. L’indumento che chiunque può (o deve) indossare.
Sì, l’abito qui è proprio il monaco.
E questo monaco è ogni uomo. Un monaco pellegrino.
Daniela Rosi