Angela Madesani
Storica dell’arte e curatrice indipendente.
Un gruppo di teste di jeans, Tifosi senza colori, accoglierà il pubblico in galleria, hanno le sembianze delle maschere africane del Camerun e della Guinea Equatoriale, realizzate da Afran, lo scultore protagonista della mostra Involucrum. È un termine volutamente colto, proveniente dalla cultura classica, che non appartiene storicamente all’artista. Il riferimento è provocatorio: molte persone si spacciano per quello che non sono, molti cosiddetti intellettuali sono solo dei modesti eruditi e talvolta neppure quello.
Le maschere africane sono state spesso elementi magici, rituali, ma anche strumenti di denuncia. La maschera ngòàn-ntàngan, che significa ragazza bianca, è nata con il tragico arrivo del Colonialismo. «Come la venuta di una nuova ragazza può portare scompiglio in un gruppo di amici, così era con l’arrivo dei bianchi, elementi estranei che portavano dissidio nel paese». Attraverso la maschera veniva allertato il popolo, era un messaggio cifrato. Afran la utilizza nei suoi lavori. Attraverso l’arte riesce a trasmettere dei messaggi, come hanno fatto i suoi antenati.
Le sue sculture sono fatte di un materiale che potremmo definire globale, pop, utilizzato in tutto il mondo, a tutte le età, come se fosse una divisa: pezzi di jeans
Rimandano ai protagonisti della nostra società dello spettacolo, a quelli che partecipano senza consapevolezza, che vogliono sentirsi parte di un gruppo, che credono che avere quattrocento amici su Facebook non significhi essere soli.
La sua è una ricerca di matrice sociale, che non fa dichiarazioni spinte, non ha bisogno di rappresentare. Lavora piuttosto attraverso metafore, simboli. Il riferimento alla sua storia, alla sua provenienza dall’Africa equatoriale, come già detto, è intrinseco in ogni suo lavoro, ma il suo interesse è soprattutto nei confronti dell’uomo, del suo atteggiamento, del suo comportamento, al di là del colore della sua pelle.
Tuttavia la riflessione sull’oggi non può ignorare la particolare situazione del nostro circostante, in cui il razzismo, i rigurgiti di nazismo tornano a farsi sentire, come mai era accaduto negli ultimi settanta anni. Il problema è di natura culturale, antropologica.
In mostra sono Adamo ed Eva, due figure acefale, nude, sempre di jeans. Il jeans qui indica un senso di appartenenza e di uguaglianza rispetto al resto del mondo. Eva ha una mela in mano, colorata, fatta di materiali di vario genere: l’apparente equilibrio conquistato dalla società occidentale è rotto da un rinnovato peccato originale. È una recidiva. Stanno riemergendo i punti deboli. Rinascono le divisioni che pensavamo di avere superato.
La scelta di realizzare sculture vestite è un ulteriore richiamo alla nostra attuale condizione. Viviamo in una società dell’apparenza in cui è difficile spogliarsi dagli orpelli, dalle maschere che ci poniamo addosso per partecipare al teatrino esistenziale in cui alcuni di noi sono protagonisti, altri comparse.
Siamo imprigionati dai nostri costumi, dalle apparenze. L’abito fa il monaco eccome! In molti giocano con identità diverse dalla propria. La televisione, Internet, i social ce lo consentono. Sono molti coloro che agognano ad avere cinque minuti di celebrità, di red carpet.
E quindi lo Scheletro di niente, una struttura bianca, fatta di grucce. Il tessuto, nel suo lavoro, è carne e il cosiddetto ometto ne è il logico scheletro. L’apparenza, il vestito, l’identità che vogliamo mostrare agli altri, l’immagine esteriore è la colonna portante di tante cose.
Venere è un rifacimento dell’Afrodite di Milo, una delle più note statue dell’antichità, che si trova al Louvre. È un richiamo alla grande cultura classica, con tutto quello che essa comporta. La scultura è nuda, come i progenitori. Così nella sua condizione originale. È una sorta di memento in una società con la memoria corta.
Sono anche in mostra una serie di quadri molto colorati, dei collages di lattine su tavola lignea, alle quali Afran [2], che arriva dal mondo della Street Art, ha aggiunto del colore. Sono ritratti di personaggi pop, Che Guevara, Marylin Monroe, ma anche il dittatore coreano Kim Jong-un, soprannominato dallo scultore africano Little Boy, come la seconda bomba atomica costruita e la prima arma nucleare a essere utilizzata in un conflitto, nel 1945, nel bombardamento di Hiroshima.
«I collages all’interno della mostra servono per raccontare l’altra faccia della stessa medaglia», spiega l’artista,«ci troviamo di fronte a un mondo omologante che d’altro canto è anche esageratamente propositivo. Per sottolineare tutto questo intervengo con il colore, gioco con le scritte sulle lattine».
Quello di Afran è un tentativo di sensibilizzazione attraverso l’arte, un mezzo per resistere alla vacuità della contemporaneità. L’artista ha trovato un fondamento alla sua poetica nella sua cultura d’origine, un fondamento che lo fa sentire parte integrante della società nella quale si trova a vivere e a lavorare.
[1] La base scolpita è di polistirolo.
[2] Afran proviene dal Camerun, mentre suo padre è originario della Guinea Equatoriale.